FOLIO

N.O.U.S

N-O-U-S

Lorella Pierdicca e Rober Rebotti
Fondatori N-O-U-S Project
www.n-o-u-s.it


“Spazio, movimento, dimensione” ... queste parole ricorrenti nelle vostre presentazioni, emergono come riferimenti astrali di una geografia che partendo dal fisico lo trascende. Suonano come una promessa di sconfinamento, di definizione e di superamento. Possiamo dire che il dialogo in fondo sia proprio questo, un movimento? L’oscillazione e la caduta che fa si che la vibrazione non visibile si manifesti?

Non un trascendere al di fuori o al di sopra della realtà concreta in una sorta di sdoppiamento tra realtà e mondo dei fenomeni, ma internità per gradi guidata da un movimento incessante come modo di esistenza del reale. Il movimento è, inteso nei suoi termini più profondi, cambiamento. Qualitativo, non solo quantitativo. Le relazioni in azione reciproca degli oggetti dinamici nello spazio e nel tempo (là dove spazio e tempo sono elementi solidali ed essi stessi un prodotto del reale e attivi nel reciproco condizionamento) alimentano il movimento; il movimento, a sua volta, opera sull'azione reciproca e, conseguentemente, sulla conservazione, sulle traduzioni, sulle emergenze, sugli scarti, su i mutamenti. La dialettica tra l’interazione, come «agente materiale (tra entità materiali) dell’azione e della determinazione reciproca» (per dirla con Bitsakis), e le forme di cambiamento nel divenire restituisce una manifestazione dell'unitarietà molteplice del mondo. Un mondo che possiede una propria trama di relazioni strutturata e strutturante che è indipendente dal soggetto che opera, dai suoi schemi concettuali e dal suo percepire. D'altra parte, se così non fosse il soggetto sarebbe condannato alla perpetua illusione. Di questo mondo il soggetto è parte integrante e all'interno di esso agisce quotidianamente con le proprie interrogazioni e registrazioni. Le interazioni sono il nostro oggetto di lavoro inteso nei suoi termini più estesi e profondi. Ciò che cerchiamo di rintracciare, descrivere e disegnare dal punto di vista delle estetiche con i nostri interventi nell'ambito della progettazione grafica, sono alcune delle manifestazioni di questo complesso di relazioni in azione reciproca.


Rendere paritetico lo spazio fisico con quello grafico, da sempre distinto per un valore dimensionale della tri o bi-dimensione, vuol dire che è possibile esplorare la trama che li accomuna, dichiarando così che questa trama esiste?

Lo spazio grafico cosiddetto bi-dimensionale si configura, nel nostro caso, come una particolare forma di spazializzazione di un sistema di oggetti, segni e regole le cui traduzioni, iscrizioni ed estetiche sono registrate localmente su reticolo, e partecipano, tra insiemi d'interrelazioni, alla costituzione e alla caratterizzazione di oggetti dinamici (non necessariamente grafici).
Lo spazio grafico è, in questo senso, una componente dialogica e solidale.
La distinzione tipicamente proposta tra bi-dimensionale e tri-dimensionale concerne anzitutto il tipo di linguaggio in uso, per cui l'associazione tra un certo linguaggio e una pratica di progettazione consegue una specifica classe, ma anche il forte rischio di un'assolutizzazione o, quantomeno, di una distrazione che conduce a possibili inghippi là dove negli atti della realtà concreta s'incontrano pratiche e quadri teorici e concettuali.
Da un punto di vista metodologico, la scrittura visiva in uso (con le sue pratiche di progettazione) ha il compito di tracciare, rintracciare, ordinare, descrivere e raccontare sul piano di superficie una realtà che non smette mai di essere quadrimensionale, dinamica e avvolgente. È a questa realtà costantemente in divenire che gli oggetti progettati (per lo più grafici nel nostro caso) devono essere in grado di aderire nei loro dispiegamenti. Nel divenire, le realizzazioni di questi oggetti sono sottoposte a continue istanze.
La domanda posta ci permette di evidenziare un aspetto implicitamente interessato laddove si è fatto riferimento al carattere quadridimensionale della realtà: il parametro tempo. Talvolta è taciuto proprio perché un certo linguaggio in uso (in una pluralità di linguaggi cooperanti), assolutizzato, copre lo spazio del processo (e dei processi) inteso nella sua totalità fluida e si sostituisce all'oggetto cui è in qualche modo riferito e che, esso stesso, concorre a definire. In altri casi perché si tende a privilegiare l'oggetto (inteso come apparentemente) finito, chiuso e immutabile, e prodotto da una determinazione (apparentemente) istantanea. L'oggetto, cioè, è meccanicamente colto nel suo statico e puramente astratto isolamento, e non nel suo movimento, nel suo interagire, nelle sue traduzioni, nelle sue riconfigurazioni.
Il nostro intervento, su piccola scala e limitatamente al piano di superficie, presuppone un approccio che ridà il primato al carattere irreversibile dei processi, che indaga il movimento (e, più in generale, il cambiamento), che opera in termini di spazializzazione (dinamica e multidimensionale), che guarda alla creatività dei fenomeni, alle scienze del divenire e dei sistemi instabili del non-equilibrio. Questo tipo di approccio non può non tener conto e non rendere conto del parametro tempo, della spazializzazione del tempo, della direzione del tempo e del ruolo costruttivo del tempo, e di ciò che il flusso del tempo concorre a conservare, creare, distruggere.


Che cosa s’intende per design della comunicazione? Ci sono strumenti specifici preposti per una pratica così definita?

Giovanni Lussu scrive che «[...] nella terminologia italiana e negli assetti didattici e istituzionali, per design della comunicazione s’intende oggi (rispetto al termine più generico grafica, il cui significato tende ormai più verso l’ambito espressivo) la progettazione di artefatti comunicativi, in particolare di tipo visivo, svolta da operatori specializzati in presenza di precisi vincoli produttivi e con obiettivi più nettamente tesi agli aspetti di tipo funzionale, legati alla risoluzione di specifici problemi posti da determinate committenze, pubbliche o private.»
Il tipo di approccio che accompagna il nostro lavoro presuppone una generalizzazione della definizione qui sopra riportata o, per ribaltamento, trasferisce tale definizione all'interno di un piano più generale che concerne e comprende la comunicazione e i processi comunicativi iscritti nei (e co-fondanti e co-costitutivi) dei molteplici e variegati (per tipologia e grado di complessità) spazi di relazioni della dimensione sociale.
Precisato questo, vi sono (almeno) due aspetti che meritano di essere evidenziati.
In primo luogo, ogni artefatto progettato, presentando sempre un carattere sociale, è sottoposto all'impossibilità di non-comunicare. Tale proprietà si ricava da due condizioni generali: di «esistenza», in riferimento alle strutture e alle grandezze intrinseche di un certo oggetto; di «relazionalità», in base alla quale ogni oggetto della realtà concreta è il prodotto di un certo numero di relazioni in azione reciproca e, nello stesso tempo, è in relazione con almeno un altro oggetto (l'ambiente/gli ambienti in cui è inserito). Lo scambio di messaggi, cui l'artefatto partecipa attivamente e in modo condizionante nelle sue disposizioni e nei suoi dispiegamenti aderendo e interagendo nei processi comunicativi che lo interessano, ha una sua attuazione e un suo coinvolgimento che prescinde sia dalla presenza concreta, dal grado e dalla natura che forma, informa e qualifica la capacità cosciente di un certo fare-intenzionale alla base del lavoro di progettazione, sia da una reciprocità in termini di comprensione nei dialoghi che intercorrono tra artefatto e agenti. L'«artefatto» è «comunicativo» poiché in alcuna istanza può essere non-comunicativo. Ed è un aspetto, questo, decisivo, che richiama e ribadisce l'importanza che ricopre il ruolo della responsabilità del progettista e, più complessivamente, di tutti gli agenti coinvolti in un particolare processo di progettazione. Il carattere comunicativo dell'artefatto non presuppone un contrario e la sua impossibilità a non-comunicare è presente già nei suoi termini di esistenza nello spazio e nel tempo.
D'altra parte, la progettazione di «artefatti comunicativi» implica per definizione un processo di progettazione entro il quale e in rapporto al quale sono poste in atto pratiche (di progettazione) e azioni deliberate e razionali. Qualsiasi processo di progettazione avviene sempre entro e in rapporto a una rete di spazi di relazioni oggettive attraversata e caratterizzata da un certo complesso di processi comunicativi che coinvolgono agenti umani e non-umani, dispositivi, strumenti, linguaggi. In questa rete e tra questi processi sono fissate le iscrizioni alla base dell'artefatto, le quali articolano il suo fare-comunicativo in tutti i momenti realizzativi che lo coinvolgono. Nello sviluppo progettuale, l'«artefatto comunicativo» che va configurandosi tra intervalli processuali irreversibili, è, nuovamente, non solo attraversato e condizionato dai processi comunicativi presenti ma è anch'esso attivo e reciprocamente condizionante sul piano comunicativo. Lo è già a partire dallo stato iniziale di potenza, durante il lavoro di analisi, nel disegno degli scenari, nella formulazione dei concept; ben prima, quindi, di essere disposto nei contesti ai quali è destinato (secondo i requisiti previsti dal lavoro di progettazione) e con i quali e nei quali interagirà portando a nuove traduzione e nuove riconfigurazioni.
I due aspetti qui brevemente esposti sono già di per sé sufficienti per affermare che operare nel «design della comunicazione» comporta, anzitutto, nei suoi termini più profondi, progettare sulla progettazione e comunicare sulla comunicazione e progettare sulla comunicazione e comunicare sulla progettazione.

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